Era un giorno come tanti. Ian era appena uscito di casa; lo 
				seguii con lo sguardo dalla finestra finchè non scomparve dietro 
				il chiosco dei giornali, come tutte le mattine. Fu l’ultima 
				volta che lo vidi vivo. Abbandonai la finestra lasciandola 
				aperta per godere di quel minimo refrigerio che poteva dare in 
				quel torrido luglio. Mi spogliai e pregustai le gocce appena 
				tiepide della doccia sulla pelle. Abbandonai reggiseno e 
				mutandine sul letto e recuperai l’accappatoio. Non notai la 
				sirena dell’ambulanza che si avvicinava e poi imboccava la 
				strada a fianco al giornalaio. L’acqua che scorreva sui miei 
				lunghi capelli mi dava una sensazione di beatitudine, sarei 
				rimasta li sotto fino allo spuntare delle branchie. Ma l’ufficio 
				mi aspettava con la sua aria condizionata e le cartelline in 
				cartone variopinte con le indicazioni del numero della pratica e 
				del nome del cliente scritte in pennarello nero. Ma quel giorno 
				le cartelline avrebbero aspettato invano.
				Il gracidio del campanello fu il segnale che quel giorno come 
				tanti sarebbe stato differente dagli altri. 
-Chi è?
				Una voce roca, peggiorata dalla scarsa qualità del citofono 
				annunciò:
				-Polizia, signora
				L’omone in divisa raccontò del malore di Ian, dell’ambulanza, 
				poi terminò:
				-Purtroppo era già morto
				Tra i singhiozzi raccontai dei suoi precedenti infarti, del suo 
				cuore malandato ma non della sua mente malata, non dei miei 
				lividi, non del mio dolore.
				Il poliziotto se ne andò e io mi preparai per recarmi 
				all’ospedale.
				L’accappatoio di spugna avvolgeva la mia infelicità per l’ultima 
				volta. Era stata spazzata via per sempre dal trillo del 
				campanello della porta. 
Entrai in cucina e buttai il flacone di cardiotonico ormai vuoto nell’immondizia